A Molfetta (Bari) il 31 marzo
E’ l’ora più buia della notte in questa cittadina il cui nome, secondo alcuni, deriverebbe dal latino “Mel facta”, fatta di miele, per la dolcezza del suo clima e del paesaggio che la circonda.
Dal mare, che nel buio non si scorge, ma di cui si percepisce il respiro ampio, pacato, accentuato dal profondo silenzio,l’aria della notte, scivolando sul lungo molo, si impiglia tra le torri campanarie e le cupole dell’antico Duomo romanico,risale leggera le stradine contorte della città vecchia, dalla struttura a lisca di pesce, imbocca l’ampia via che corre a lato delle mura e risale dal porto verso il centro.
Con la brezza tiepida di inizio primavera, profumata di salsedine, percorriamo anche noi questa strada, detta “il Borgo”, un tempo lastricata di ferrigna pietra lavica vesuviana, passiamo davanti al monumento a Mazzini, che da anni se ne sta ritto in piedi, con la mano appoggiata allo schienale di una sedia su cui i bambini pensano che, alla notte, quando nessuno vede, si riposi.
Superiamo la piccola Chiesa di S. Stefano, dove son custodite le statue per la processione della Settimana Santa, passiamo davanti alla chiesa dell’Assunta con la sua facciata barocca, divenuta Cattedrale relegando il suggestivo Duomo al ruolo di Chiesa Vecchia.
Ecco, scorgiamo in fondo al Borgo la chiesa delle Anime del Purgatorio, con altre stupefacenti statue per i riti pasquali e poi quest’arietta, che ci fa da guida, dilaga tra gli alberi della Villa Comunale, mescolando al sentore del mare quello intenso degli aghi di pino e quello un po’ amaro degli oleandri.
Assorbiamo il silenzio di questa notte, scandito, ad intervalli dai rintocchi dell’orologio del Seminario, e abbiamo quasi dimenticato, in tanta pace, il motivo del nostro vegliare.
Improvviso ce lo ricorda un grido alto, lacerante, prolungato, una voce nel dialetto locale: “CHI VUOL DIRE UN’ AVE MARIA ALLA MADONNA ?”.
L’invito urlato sale verso le facciate delle case, penetra attraverso le persiane e le finestre serrate, bussa alle porte chiuse,che qua e là s’aprono; persone svegliate di soprassalto guardano nella via ricordandosi di colpo di quest’appuntamento dimenticato, altri ch’erano, invece già pronti, posano la tazzina del caffè che s’eran preparati nell’attesa e scendono in strada, respirando l’odore particolare che, chissà perché si avverte uscendo di casa molto presto, come di sonno interrotto, di tempo idefinito…
E così, percorrendo tutte le strade, il gruppo s’ accresce, il fruscio dei passi si accentua e, ad ogni crocicchio, si leva, sempre acuto, pressante il richiamo :“CHI VUOL DIRE UN’ AVE MARIA ALLA MADONNA?”.
A poco a poco si forma una processione, altri gruppetti s’aggiungono tacitamente, non ci sono parole oltre all’intermittente, reiterato, assordante: “CHI VUOL DIRE UN’ AVE MARIA ALLA MADONNA?”.
Alle quattro, dopo aver percorso le vie della città, la processione si ferma ai piedi di una bianca guglia gotica, alta una ventina di metri, posta su una breve scalinata, a cui è stato dato il nome d’uno dei luoghi principe della Cristianità: il Calvario. Dinnanzi al Calvario tutti recitano quattro Ave Maria, prima di tornare a casa.
Dall’altra estremità del porto, nel Santuario accanto all’antico Ospedale dei Crociati, la Madonna ascolta tutte queste voci e raccoglie tra le dita ognuna di queste Ave Maria, ciascuna a lei ugualmente cara: quella della beghina devota che ne recita ogni giorno, quella di chi la pronuncia solo in questa notte di marzo, quella di coloro che han fatto la strada tenendosi per mano, quella di chi aveva accanto solo la memoria di persone care ed anche quella di chi è lontano da tanto tempo, ma, almeno col pensiero, è qui, a Molfetta, ogni anno, la notte dell’ultimo giorno di marzo a dire UN’AVE MARIA ALLA MADONNA.
Ofelia Allegretta